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Felice di lavorare…felice!

Chiedo scusa per il gioco di parole, e per l’apparente provocazione del titolo, ma ho solo voluto usare un tono più ironico per dare il via a qualche riflessione su una nuova filosofia di vivere il lavoro in azienda, che va sotto il nome di benessere organizzativo.

Recenti studi, condotti su numerose fasce di lavoratori americani ed europei, dimostrano infatti che le organizzazioni più efficienti sono quelle con dipendenti soddisfatti e “un clima interno” sereno e partecipativo. Infatti, un buon ambiente lavorativo, inteso in termini di motivazione, collaborazione, leadership, coinvolgimento, flessibilità e fiducia delle persone, può aumentare la “customer satisfaction” fino al 47% e la produttività circa del 30%, come cita una fonte del Sole 24 Ore.

Se il significato di benessere è da intendere nel senso di prospera condizione di salute, di fortuna e d’animo, quello specifico di benessere organizzativo sta, appunto, nella capacità dell’organizzazione di promuoverlo fra i lavoratori, per tutti i livelli e per tutti i ruoli. Concretamente questo significa prestare attenzione alle esigenze e alle aspettative dei dipendenti, con l’ascolto e la partecipazione. L’obiettivo è quello di fare in modo che ogni lavoratore senta di appartenere all’organizzazione e si senta rappresentato dalla stessa. Più  la persona condivide i valori, le pratiche e i linguaggi dell’organizzazione, più aumenta la motivazione e la capacità di dare un significato positivo al proprio lavoro.

Un’impresa che vuole ottenere i benefici economici e produttivi possibili, nel medio-lungo periodo, grazie ad una politica aziendale sensibile al benessere, deve necessariamente investire non solo in competenze tecniche e in immagine, ma anche nello sviluppo di risorse umane con competenze legate alla dimensione emozionale. L’intelligenza emotiva entra, così, sempre più all’interno delle logiche organizzative: una buona capacità di gestire e comprendere le proprie ed altrui emozioni è, infatti, un modo efficace per gestire le attività quotidiane in maniera costruttiva. Più l’azienda sarà sensibile e terrà conto del clima e dell’ambiente in cui i dipendenti si trovano a dover lavorare ogni giorno, tanto maggiori potranno essere i ritorni in termini di profitto e di fatturato.

In una intervista, Robert Levering , presidente e fondatore di “Great Peace to Work Institute”, che da dieci anni si occupa di ricerche e studi sulle imprese in materia di ambiente lavorativo, ha elencato i tre fattori principali che, a suo parere, aiutano a creare un buon clima in azienda:

 

  • buone relazioni coi colleghi
  • l’orgoglio e la stima per ciò che si fa
  • la fiducia nelle persone per cui si lavora

 

Questo a dimostrazione di quanto sia importante lavorare in un ambiente coinvolgente, in cui si possano costruire rapporti sociali fondati sulla stima e la fiducia reciproca.

Le stesse ricerche ci aiutano a capire come mai alcune delle maggiori aziende leader di mercato creino situazioni e contesti per agevolare i rapporti di amicizia fra i dipendenti, attraverso seminari, workshop, corsi di formazione, attività ludiche, sportive e ricreative da svolgere fuori ufficio.

A questo punto mi viene doveroso aprire una parentesi per fare alcune considerazioni legate alla mia precedente esperienza lavorativa presso quella che, ai tempi, era la Banca Commerciale Italiana. E se, nei primi anni 90, forse si parlava ancora poco di benessere organizzativo, credo di poter dire che il clima lavorativo che si respirava allora in banca fosse molto vicino a questa filosofia se, fra noi colleghi, era normale parlare di “mamma Comit” e di sentire un forte senso di appartenenza e di orgoglio nell’essere, diciamo pure, “suoi figli”!

Tornei di calcetto, raduni sportivi a livello nazionale, fiori alle colleghe, cene sociali, uscite serali di gruppo, brindisi a Natale, frittelle a Carnevale, corsi di formazione a cui si faceva a gara per poter partecipare: ogni occasione era buona per rinsaldare e coltivare un clima di amicizia e di fiducia fra i dipendenti.

Tutto questo in un periodo in cui la Comit era non solo una banca grande, ma soprattutto una grande banca, fiore all’occhiello del sistema bancario nazionale per i suoi volumi d’affari e per i suoi utili.

Un clima che, certamente, favoriva la serenità e l’attaccamento al proprio lavoro, in cui ognuno si sentiva parte utile di un ingranaggio, e veniva spinto a dare il meglio di sé.

Un clima che, ahimè, si è perso via via negli ultimi dieci anni, di cui rimane il ricordo pieno di nostalgia ogni volta che mi capita di parlarne con gli ex-colleghi, che vivono il disagio di una  condizione lavorativa in cui non si tende più a valorizzare ma a sminuire, in cui si parla solo il linguaggio dei budget, e dove chi lavora viene visto solo in termini di numeri e di unità produttiva, e non più come persona.

In quel caso, gli input positivi che arrivavano da chi dirigeva la banca erano il fertile concime che permettevano il germogliare e il crescere di tante iniziative di incontro, promosse direttamente dagli stessi colleghi.

Ora, se è vero che chi gestisce l’impresa dovrebbe avere fra i suoi compiti la responsabilità di creare le condizioni di benessere nell’ambiente lavorativo, è vero anche che ogni singolo dipendente può fare la sua parte per vivere il proprio tempo di lavoro in modo ecologico.

Se, come dice Levering, uno dei fattori di benessere è dato dall’orgoglio e dalla stima per ciò che si fa, è importante che ogni persona si fermi un momento a riflettere per capire sulla base di quali motivazioni (e convinzioni) si è scelto di fare proprio quel lavoro e non, invece,  un altro, e se l’attività che si svolge è coerente con i propri sogni e con le proprie passioni. In altri termini, per riprendere le parole del titolo, capire che per il proprio benessere è molto importante non solo essere felici perché si lavora (di cui una certa cultura della scarsità ci vuole  convincere ogni volta che sentiamo dire che lavoro non ce n’è e che bisogna accontentarsi di poter lavorare) ma, ancor di più, soddisfatti perché ci si sente realizzati svolgendo una professione coerente con le proprie aspirazioni.

E forse, è il caso di porsi anche alcune altre domande e chiedersi, ad esempio, quanta attenzione si mette nel curare lo spazio fisico in cui si lavora, quanto impegno si ha nel tenere in ordine e abbellire, magari con una semplice piantina fiorita, la propria scrivania, sapendo che anche questo contribuisce per poter lavorare con gusto e passione.

E soprattutto, quanto impegno personale c’è nel coltivare i rapporti con gli altri colleghi, quanto garbo e rispetto c’è quando ci si confronta con le altre persone, quanto si ha voglia di essere propositivi e non solo di lamentarsi di ciò che non funziona.

Domande forse scomode, almeno in apparenza, ma capaci di dare consapevolezza e coraggio per compiere i passi necessari per diventare più liberi, più soddisfatti e padroni della propria vita e del proprio tempo.

 

Raimonda Farris